Yé e le zucche

13/10/2025
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letto da Vincenzo Iantorno



Yé e le zucche 

Provenienza: Repubblica Dominicana (AMERICA)

Un vecchio era intento a costruirsi la propria canoa ricavandola da un grosso tronco d’albero vicino al mare, quando Yé gli si avvicinò, salutandolo:
«Màbuika, nigatu.»
Questi sollevò il capo dal suo legno e rispose:
«Màbuika, niràho!»

Il vecchio era troppo occupato a scavare la barca, e, per non interrompere il lavoro, chiese al giovane Yé di entrare per cortesia nella sua baracca a prendergli dal fuoco un tizzone acceso.

Yé entrò nella casa del pescatore, ma ritornò senza fuoco, dicendo che si era spento sulla via del ritorno. Il giovane entrò nella casa una seconda e poi una terza volta, ma del fuoco nemmeno l’ombra.

Infine il vecchio capì e disse:
«Se è la mia zuppa che hai adocchiato, va’ e prendine un poco, così almeno mi porterai il fuoco».

Yé ne fu felicissimo; Tornò nella casa e sollevò il coperchio del paiolo dove stavano le zucche, e cominciò a mangiarne fino a che la pentola non fu completamente vuota. Dopo aver finito tutto, però, si sentì un po’ in colpa, e non ebbe il coraggio di ritornare dal vecchio con il fuoco. Così preferì sparire.

La volta seguente, quando i due si incontrarono, Yé salutò calorosamente il vecchio come se nulla fosse accaduto:
«Màbuika, nigatu!»
«Hai proprio un bel coraggio» disse il vecchio alzando la voce. «Salutarmi così dopo aver mangiato tutta la mia zuppa!»

Ma Yé non aveva voglia di fare storie, e poi aveva ancora in bocca il meraviglioso sapore di quelle zucche, per cui chiese al vecchio, dopo essersi umilmente scusato, dove mai le avesse prese così squisite.

Il vecchio, che in fondo era molto buono, lo perdonò e anzi gli disse che, se avesse voluto, l’avrebbe portato nel campo dove crescevano le zucche.
«Ma» disse «bisogna avere molta prudenza, poiché il campo delle zucche è guardato giorno e notte dagli zombi, e sono molto pericolosi. Inoltre ricordati che non dovrai toccare assolutamente il grasso insieme alle zucche. E se le porte si dovessero chiudere dietro di te, ricordati di dire: Màikattina akòle! Io non mangio grasso.»

Yé allora andò a prendere delle lenzuola e le cucì insieme, facendo così un enorme sacco che avrebbe potuto contenere molte zucche; poi i due uomini partirono alla volta del campo degli zombi.

Entrò per primo il vecchio, il quale in tutta fretta riempì il suo sacco e uscì dal campo, facendo entrare Yé. Questi invece rimase a lungo occupato a riempire di zucche il suo enorme sacco, senza rendersi conto che il tempo stava scadendo e che le porte si sarebbero chiuse, cosa che inevitabilmente accadde. Yè, allora, impaurito cercò di ripetere la formula che il vecchio gli aveva insegnato: «Màika… Màikana…!», ma niente da fare, non riusciva assolutamente a ricordarsela.

La visione di tutto quel ben di Dio gli aveva confuso le idee. Disperato, cercò allora di aprire con la forza e cominciò a spingere e a tentare di forzare le porte, ma queste sembravano fatte di roccia, non riusciva a smuoverle di un millimetro.

Stanco di dare calci e pugni, si guardò intorno alla ricerca di una via d’uscita. Proprio di fronte a sé vide un piccolo sentiero, si guardò attorno per controllare che non ci fossero facce sospette in giro, e cominciò a percorrerlo. Camminò fino a che giunse a un’umile capanna; davanti alla porta era seduta una vecchietta, alla quale chiese informazioni.

La donnina gli indicò un sentiero che portava fuori dal campo, ma che prima attraversava una fitta foresta abitata dagli zombi. Yé era molto preoccupato, ma, visto che sembrava l’unica via d’uscita, si incamminò.

Aveva già percorso parecchia strada, quando arrivò in una radura, dove i suoi piedi cominciarono ad affondare in una strana sostanza melmosa che sulle prime pareva fango. Quando però fu affondato fino alle ginocchia, il povero Yé si rese conto che era cacca di gallina.

Preso dal disgusto, cominciò a correre il più velocemente possibile per allontanarsi da quel letamaio, e corse, corse, fino a che, ormai stremato dalla fatica e dalla paura, non giunse a una capanna molto malandata.

L’infelice viaggiatore non sapeva che quella era la casa di una mamma zombi e delle sue dieci figlie, e chiese di essere ospitato per quella notte, visto che era troppo stanco e impaurito per continuare a viaggiare anche col buio.

La mamma zombi accettò di buon grado, e lo portò in casa per mostrargli il suo giaciglio. Entrato nella povera stanza dove avrebbe dormito, Yé si buttò distrutto sul letto e, portando le braccia distese dietro il corpo, cominciò a tamburellare con le dita contro la parete divisoria per scaricare un po’ i nervi.

La donna ascoltò attentamente e, affascinata dal ritmo, gli chiese se fosse un suonatore di tamburo.
«Oh, certo che lo sono» rispose il giovane. «Ogni volta che qualcuno fa una festa, mi chiamano per rallegrarla con il mio tamburo.»

La vecchia ne fu entusiasta, e con il suo passo lento e pesante andò nell’altra camera e ne ritornò con un piccolo tamburo, chiedendo a Yé di suonarlo.

Aveva da poco cominciato a percuoterlo, che le dieci figlie zombi uscirono fuori a danzare. Danzarono a lungo per tutto il cortile, e lo fecero in un modo strano, che faceva venire paura al suonatore. Dopo poco smise di suonare, rimanendo a guardare lo strano modo di muoversi delle ragazze.

Preso dal panico, decise di allontanarsi al più presto da quella casa per prendere un po’ d’aria. Ma le ragazze, sentendo ciò, gli chiesero di poterlo accompagnare, e il povero Yé fece buon viso a cattivo gioco e accettò tutto tremante.

Fuori dalla casa le giovani zombi lo circondarono e cominciarono ad odorarlo, dicendo: «Chissà come sarà buona la sua carne!»

A quel punto Yé decise di mantenere saldi i nervi: tornò a casa e riprese a suonare il tamburo per distrarre quella poco accogliente compagnia e, nel momento in cui la danza aveva raggiunto il culmine, lanciò il tamburo addosso alla vecchia e fuggì come un razzo.

Yé riuscì quella notte ad arrivare a casa sano e salvo ma, prima di addormentarsi, meditava una vendetta.

La mattina dopo, infatti, decise di tornare dagli zombi per sterminarli; si munì di un’amaca e di una corda robusta e, a sera, si incamminò verso la loro casa, portando con sé il suo fedele cane da caccia.

Giunto che fu, ricevette una strana accoglienza, anche se tutti erano in fondo contenti di vederlo in carne e ossa.

Nuovamente gli fu mostrata la camera dove avrebbe dormito, e subito Yé si diede da fare per stendere la sua amaca per dormirci la notte. Il giovane disse di essere molto stanco e andò a distendersi quasi subito.

Quando le donne credettero che si fosse addormentato, entrarono nella stanza per divorarlo vivo, ma il cane intervenne e non permise loro di avvicinarsi al padrone, digrignando i denti ogni qual volta si avvicinavano troppo.

Le dieci ragazze allora decisero di andare a dormire, ripromettendosi che il giorno dopo avrebbero eliminato anche il cane e mangiato pure lui.

Dopo aver atteso che tutti si fossero addormentati, Yé si alzò dall’amaca e uscì fuori dalla casa, portando con sé il cane. Legò la corda alla maniglia della casa, e cominciò a girarvi attorno, bloccando così tutte le uscite, porte e finestre.

Quando si fu assicurato che nessuno, neanche un verme, potesse uscire dalla casa, le diede fuoco.

La casa di legno prese fuoco in un attimo e Yé, andando via con il suo cane, si godeva la scena da lontano.